Recensione per "Cartoline da un paese in dismissione" di Vera Bonaccini

Il sogno dell’utopia ripercorso attraverso la realtà eterotopica, graffiante, nel restare particolareggiato scontro, ove il Poeta ricrea il suo posto segreto, interconnesso col resto della carne mondiale e con una società dozzinale a cui spesso non sente appartenere, se non attraversando stereotipate allegorie che penetrano la sostanza umana sino a renderla cieca, nel suo connivente, incessante concorso allo stocastico sviluppo-inviluppo. Ecco, il compito del Poeta si fa voce di contrasto, di sfida e invito a perdurare, la necessità di uno è divenuta urgenza di molti e, poiché per se stesso e per quelli poi scrive, egli spinge a elicitare le proprie qualità sopite come lui prova a fare, pettinando un nuovo percorso in essere a svilupparsi, anche senza bisogno dell’avere. Tutto il "necessaire" di cui l’uomo abbisogna è e resta – effettivamente – l’essere stesso, la distribuzione stessa del proprio avere in ciò che egli può dare. È ricchezza, quella del Poeta e la ricchezza, si sa, comporta parecchie responsabilità, "noblesse oblige", avrebbe sintetizzato Honoré de Balzac; suo è quindi il compito di aprire nuove frontiere dell’anima, magari vagando ramingo in solitaria, magari in una sabbatica permanenza presso un paese in dismissione, anima e soggiorno da cui scrivere cartoline per un mondo che muore dentro.
Vera Bonaccini si fa locus amoenus, irreprensibile sostanza dalle connotazioni eteree, d’altra schiatta, per annientanti verticalismi fatti passare per alambicco in Cartoline da un paese in dismissione, silloge del 2014, per le Edizioni La Gru, percorrendo, ponderando e tonitruando in quella magione ideale eletta a proprio sacrario, nello scavo di un personale eremo da raccontare al deserto dietro… ch’ella ritrova il mare allo scostare la pelle, pur conservando in formalina un “veleno assurdo” di ricordi sospesi, come sospeso resta l’impiccato all’angolo dell’emisfero destro, forse, per analogia carto(ro)mantica con l’appeso, afrore e percezione di rinnovamenti dentro cui subissa per poi riemergere in Niederlage. Poesia in crescendo, quella di Vera Bonaccini con un impegno anche nella musicalità ricreata attraverso certi tautologici tornanti composti di assonanze, che tuttavia non rendono la lettura greve, ma si presentano leggeri nella stratificazione del significante. Ricchezza di correlativi oggettivi (silenzi progettati a tavolino – masturbazioni estatiche – cannibali gorgheggi – anime di fango – ego slabbrati – la pioggia sui vetri a novembre) adusi a smorzare la pesantezza degli argomenti trattati, magistralmente formulati in un’ampolla a corsia preferenziale spessamente descrittiva, nonostante la Bonaccini riesca a sfaccettarsi in materia proteiforme, onnivora, rimestando e cucendo un patchwork denso di pathos:
“ti finirò /con tutta la calma /riservata a una vendetta, /nelle notti d’estate /accanto al mare, /nel rosso della fiamma /che non so spegnere /ancora. /ti finirò /come si mette fine a un viaggio, /nell’ora breve /prima che ne inizi un altro. /ti finirò /con un ultimo sorso /alla bottiglia, /il vetro appoggiato ai denti stanchi […]”
Sa, tra l’altro, essere letale, la Bonaccini, meteora scagliata contro un mondo di topografie salassate dagli stereotipi e dal troppo paupulare, citare e commercializzare l’amore, poiché “amore è una parola del cazzo” e, controprova della bellezza strutturale di uno sfogo ancor più maturo, la dà nelle strofe di “Pelle sensibile”:
“forse non hai capito /che non sono il braccio /di un compasso /che ruota intorno a un cazzo. /so disegnare cerchi /perfettamente imperfetti /anche ruotando /come un derviscio /sulla mia spina dorsale /in titanio, /e /riesco a farlo /anche fumando, /ci credi?"
Osservatrice dagli specchi di altre, cruciali realtà che guarda alle ridondanze svolgentisi in un mondo troppo abusato e fatto di e per logiche circolari che la Poeta vorrebbe abolire, dissacrare e bruciare con la propria voce, un mondo che conosce e che sa di non poter cambiare se non allontanandosi e facendosi mondo di se stessa, da quel paese in dismissione, tentando la comunicazione del sostanziale, di quanto è ancora in grado di donare emozioni e sale vitale a un piattume divenuto normalità.
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