L'antica locuzione latina "epistula non erubescit", attribuita a Cicerone, sta a significare che uno scritto, giacché privo delle emozioni dello scrivente, può manifestare pensieri ed emozioni che non si avrebbe il coraggio di propalare di persona. Palese, tuttavia, come l'uso della parolaccia faccia oramai parte della nostra quotidianità, e in una maniera talmente congenita e naturale da essere usata come interiezione nell'esprimere un'emozione o per dare forza a frasi o concetti.
La manifestazione mondiale del Sessantotto, assieme alla Rivoluzione sessuale, ha avuto un ruolo fondamentale per la liberalizzazione e per la successiva canonizzazione di un linguaggio più libero e anzi potremmo affermare, a cinquant'anni di distanza, che la liberazione non sia stata tanto sessuo-politica quanto, piuttosto, sessuo-verbale; molti affermano come la ribellione all'autorità, il libertinismo e l'antiproibizionismo non solo non abbiano liberato l'uomo, ma lo abbiano reso più schiavo dei suoi vizi, più timoroso quando posto di fronte alla dura realtà della vita. Al di là dell'aspetto politico che qui tralasceremo, sarà utile analizzare il mutamento verbale e come la liberalizzazione della parolaccia abbia aperto nuovi varchi verso l'apologia del sesso, partendo da quella concezione traslata dal secolo precedente e che si fondava sull'idea romantica dell'amore. Nuove alienazioni che hanno dato vita a nuovi prigionieri di un'industria basata sulla sessualità, sulla pornografia e sull'oggettivazione del corpo. La tanto celebrata libertà del Novecento si è quindi risolta nella mera mercificazione dei corpi e certamente internet, TV e applicazioni per cellulari hanno dato un grosso contributo allo sviluppo e alla saturazione di quel mercato, strutturando un imprinting in maniera tale da snaturare le idee originarie dell'ascoltatore.
Tornando alla parolaccia, anch'essa, come avvenuto per il porno e per tutto il primevo ideale immaginario di libertà, poi subissato parodisticamente in un'implosione autofagistica, ha subito una forte accelerata grazie a TV e mezzi di comunicazione. Solo nel 2000, secondo uno studio, si potevano ascoltare dalle settanta alle cento parolacce al giorno. Un'altra del 2003 ne riportava una ogni ventun minuti circa. Nel Festival di Sanremo del 2008, le parolacce nell'Ariston sono state cinque; le canzoni moderne, i film, contengono parolacce ovunque ma già nel 1993 la parola cazzo risultava al 773° posto tra i vocaboli più ricorrenti degli italiani. La diffusione delle applicazioni per cellulari, i social network, hanno allargato a macchia d'olio e in modo indefinito la sfera del privato, facendolo sconfinare nel pubblico, mescolando formale e informale, sino alla detabuizzazione del turpiloquio. Si pubblicano i fatti propri in ogni momento, in qualunque situazione. Il cellulare è divenuto una sorta di protesi di cui non si può più fare a meno e, con esso, si è allentato il comune senso del pudore linguistico, con tutte le facilitazioni che l'uso dello strumento in questione comporta. Lo sdoganamento della parolaccia è partito, tuttavia, proprio dalla contestazione studentesca del Sessantotto. Parole come fesso, me ne fotto, sono in origine termini sessuali che, dopo la contestazione del Sessantotto diventano alla moda tra i gruppi di sinistra. Di lì all'uso di certa terminologia all'interno delle famiglie, il passo fu breve. "Nei salotti moderni, nelle famiglie - le disagiate, le agiate e le ricche - oggi si parla come in tempi per nulla lontani non si sarebbe osato e nelle conversazioni trovano posto barbarismi, sproloqui, battute oscene e frasi irrispettose", scrive Italo Zingaretti nel 1979.
Quello che è cambiato è lo spazio sociale ma le parolacce non sono certamente un'invenzione moderna. Dante soprattutto, nella Divina Commedia, fa esprimere i suoi personaggi in modo spesso volgare, poiché egli adotta tutte le varietà della lingua fiorentina, anche le forme più oscene. Frasi come «E lascia pur grattar dov’è la rogna», «ed elli avea del cul fatto trombetta», «vidi un col capo sì di merda lordo», «Taïde è, la puttana che rispuose», fecero inorridire Pietro Bembo che preferì Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa, ponendo Dante in secondo piano. Ma potremmo citare ancora il lessico erotico e della tradizione comica cinquecentesca di Pietro Aretino con quei Sonetti lussuriosi o, ancora, le allusioni e le anfibologie di Ludovico Ariosto o di Giordano Bruno. Il turpiloquio sarà censurato dalla tradizione classicista che prese a modello la lingua anti-realistica del Petrarca - come accennato sopra - per via del Bembo, che escludeva Dante da quei canoni, causa le parole rozze che utilizzava. Più aperto in tal senso l'allora Vocabolario della Crusca (1729-1738) che racchiudeva le parolacce fottitore, fottuto, fottitura, fottitoio, parole che procurarono un evidente mal di testa al Manzoni, il quale commentò la sua copia con ben quattro "Ohibò!" e annotando con: "Perché tutte queste schifezze?". Meno pudibondi si mostrarono alcuni suoi colleghi come il Bellini, il Carducci, il Canova o il Capponi e persino Leopardi che, forti di quel motto ciceroniano per cui uno scritto non arrossisce, non esitavano a colorire le loro epistole con espressioni sboccate.
Non esiste una sostanziale differenza tra il turpiloquio epistolare e quello utilizzato oggi. L'unica differenza è che l'epistolare è stato reso pubblico dopo molti anni, comunque dopo la morte degli scriventi mentre quello dei social network o della televisione o della radio è spesso letto o ascoltato da tutti al momento stesso in cui lo si pubblica o pronuncia. Per il resto, il registro è improntato verso la massima informalità.
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